“Garibaldo” con la “o”
La singolare disavventura di due preti legittimisti all’indomani dell’Unità
Lorenzo Terzi
Il 3 dicembre 1862 Francesco Schettini di Portici, con la moglie Teresa De Crescenzo, si presenta in Parrocchia per far battezzare il figlio, dopo averne dichiarato la nascita in Municipio.
Fin qui nulla di strano. Ma il parroco, don Gennaro Formicola, si rifiuta di amministrare il Sacramento.
Perché? Come mai questo diniego apparentemente così arbitrario, quasi crudele?
L’affare è tanto spinoso che il 14 dicembre dello stesso mese il sindaco di Portici Pasquale Leone scrive addirittura al prefetto di Napoli per spiegare l’accaduto.
Lo Schettini aveva preteso di dare al figlio, come nome di battesimo, “Garibaldo Raimondo Pietro Rodolfo”.
Si trattava ovviamente di una provocazione, come si può capire facilmente considerando il clima del periodo, la forte tensione vigente fra Stato e Chiesa e la fama di “mangiapreti” e di anticlericale di Giuseppe Garibaldi. Il parroco, vista l’aria che tirava, aveva tentato di uscirne mettendo da parte l’ideologia e usando un argomento squisitamente logico: “Garibaldo” era un cognome, non un nome proprio.
Nel citato rapporto, il sindaco di Portici riporta la protesta da lui stesso indirizzata il 9 dicembre precedente al vicario generale dell’Arcidiocesi di Napoli. La lettera al prelato è un capolavoro di ipocrisia, nonché di arrampicata sugli specchi:
“Se mal non mi appongo, la Chiesa consiglia di non battezzare i fanciulli con imporre loro nomi osceni, mitologici, cognomi e nomi di persone che hanno combattuta, malmenata, e disprezzata la Religione di Gesù Cristo S.N., ma non impedisce, anzi lo permette che si battezzino essi con un nome proprio e di un Cattolico.
E poiché Garibaldo è nome proprio, e di cattolico, perché nel 631 vi fu Garibaldo figlio e successore di Grimoaldo Re di Lombardia, così pare a me non potersi incontrare difficoltà alcuna di battezzare il figlio di Francesco Schettini col nome di Garibaldo Raimondo Pietro Rodolfo”.
La stiracchiata argomentazione, però, non convince il parroco Formicola, tant’è che il 28 dicembre successivo il prefetto di Napoli scrive a sua volta al sindaco di Portici esortandolo a deferire il sacerdote all’autorità giudiziaria nel caso in cui questi abbia persistito nel suo rifiuto di celebrare il Battesimo.
Tuttavia, il 13 aprile del 1863 la questione non è ancora risolta; in quella data, infatti, il sindaco Leone trasmette di nuovo all’autorità prefettizia le doglianze dello Schettini, il quale si autodefinisce “un patriota che ha fatto il suo dovere”:
“Ora il sottoscritto che ha pur versato il suo sangue per lo attuale Governo, siccome è noto a tutti, non sa trovar ragione a persuadersi che per capriccio di un Prete debba escludere suo figlio dal beneficio del Cattolicismo”.
A commento della lagnanza del ricorrente – per la verità, alquanto ipocrita – il sindaco aggiunge:
“Non manco di farle riflettere, che la triste genia de’ Preti imbaldanzisce alla giornata in vedersi impunita; né serba pur ombra di rispetto alle Autorità, con immenso scandalo e dispiacere di tutti i buoni”.
Il 17 aprile giunge la risposta del prefetto, il quale s’impegna a sollecitare presso l’ordine giudiziario la continuazione del processo intentato contro il parroco a querela dello Schettino.
L’incredibile vicenda, infatti, prosegue con l’imputazione, ai danni del povero sacerdote porticese, di violazione dell’articolo 268 del Codice penale allora vigente, secondo cui (comma 1): “I ministri della Religione dello Stato, o dei culti tollerati, che, nell’esercizio del loro ministero, pronuncino in pubblica adunanza un discorso contenente censura delle istituzioni o delle leggi dello Stato, o commettano fatti che siano di natura da eccitare il disprezzo ed il malcontento contro le medesime, o coll’indebito rifiuto de’ propri uffizi turbino la coscienza pubblica o la pace delle famiglie, sono puniti colla pena del carcere da tre mesi a due anni”.
Non basta: insieme con don Gennaro Formicola anche il canonico Giuseppe Tipaldi, vicario capitolare della Curia arcivescovile di Napoli, viene chiamato a comparire davanti alla Sezione d’accusa della Corte d’Appello di Napoli il 12 maggio 1863: per lui l’imputazione è di complicità con il parroco, nonché di “discorso di natura da eccitare lo sprezzo contro l’attuale Governo”.
I magistrati per prima cosa ascoltano il rapporto del Sostituto Procuratore generale Ranieri, nonché la lettura, data dal cancelliere sostituto, “di tutte le carte del processo compilate dal Giudice Istruttore della prima Sezione del Tribunale Circondariale di Napoli Sig.r Carlo Cipolla”.
La Sezione d’accusa, quindi, prende in esame la condotta degli imputati sulla base delle carte processuali raccolte fino a quel momento. Viene particolarmente censurato il comportamento del canonico Tipaldi: gli si rimprovera, innanzitutto, di aver sospeso a divinis il sacerdote Pietro Palomba di Torre del Greco perché questi era stato eletto deputato al Parlamento di Torino: il vicario l’aveva avvertito che non avrebbe potuto riabilitarlo se egli non avesse rinunciato alla carica, facendo per di più pubblica ritrattazione dei suoi sentimenti filounitari. A tale proposito i giudici della Sezione commentano: “Il render palese il motivo di quella pena disciplinare, cioè il fatto d’essere il Sacerdote sospeso a divinis perché deputato al Parlamento nazionale, non può non riguardarsi come fatto al supremo grado capace di eccitare il malcontento contro quell’ordine politico, nel quale lo stesso come cittadino era stato chiamato a far parte della rappresentanza nazionale”.
Ancora, il vicario capitolare Tipaldi aveva anche osteggiato la nomina dell’abate Antonio Pandullo a rettore della Chiesa di Santa Brigida annessa al convento dei Chierici regolari della Madre di Dio. Tale nomina era stata sancita il 9 giugno 1862 dal direttore della Cassa ecclesiastica in esecuzione del decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861 n. 251: con esso veniva per l’appunto trasferito alla Cassa ecclesiastica dello Stato il patrimonio degli enti ecclesiastici soppressi nei territori continentali dell’ex Regno delle Due Sicilie. Per di più il focoso canonico, quando due delegati di Pubblica Sicurezza gli avevano fatto osservare che le autorità stavano agendo in conformità a una legge, aveva proferito “parole sediziose”, esclamando: “Tengo in tasca quella Legge di Vittorio Emmanuele!”.
Com’era prevedibile, la Sezione d’accusa della Corte d’Appello rimanda a giudizio innanzi alla Corte d’Assise il parroco Formicola con l’imputazione di “indebito rifiuto dei proprî officî” per aver negato il Battesimo al figlio di Francesco Schettini, ricadendo nel reato di cui all’articolo 268 Codice penale, nonché il canonico Tipaldi, sia per complicità con il Formicola, sia per aver commesso in tutte le circostanze sopra ricordate anche il reato di cui all’articolo 269 Codice penale, ovvero: “Se il discorso, lo scritto, o gli atti mentovati nell’articolo precedente contengano provocazione alla disobbedienza alle leggi dello Stato o ad altri provvedimenti della pubblica autorità, la pena sarà del carcere non minore di tre anni, e di una multa non minore di lire duemila”.
Tuttavia il 17 novembre 1863 viene promulgato il regio decreto “col quale è abolita l’azione penale per diversi reati commessi nelle Provincie Napolitane”. I due imputati, quindi, presentano domanda per accedere all’indulto alla prima Sezione della Corte d’Assise di Napoli. Il 24 novembre la Corte, presieduta da Giovanni Antonio De Nardis, accerta che i reati contestati al Formicola e al Tipaldi rientrano effettivamente nella categoria di cui all’articolo 1, n.1, del suddetto decreto, ovvero quella dei reati politici non accompagnati o connessi a reati di brigantaggio, o ad altri crimini contro le persone, le proprietà e le leggi militari. L’azione penale contro gli accusati, pertanto, viene estinta.
L’ultimo atto di questo paradossale episodio è rappresentato da una registrazione a margine dell’atto di nascita del figlio di Francesco Schettini, compreso nel registro dei nati del Comune di Portici dell’anno 1862, al numero d’ordine 348:
“Il Parroco di Portici D. Gennaro Formicola ci ha restituito nel dì 26 di Giugno anno corrente milleottocentosessantatré il notamento che gli abbiamo rimesso nel dì tre Dicembre anno milleottocentosessantadue [“anno suddetto”, cassato] in piè del quale ha indicato che il Sacramento del Battesimo è stato amministrato a Garibaldo Raimondo Pietro Rodolfo Schettini nel giorno ventisei Giugno suddetto, del quale si è accusato [sic] la ricezione”.