Ingratitudine e irriconoscenza: tra delusione e sofferenza
di Salvatore De Pascale
È nel momento in cui vieni confuso nella massa che ti rendi conto che il tuo valore aggiunto serve a nulla e dovresti mal predisporti per il futuro.
È su questo assunto che vi intrattengo oggi, nell’ultima domenica prima del nuovo anno, sull’ingratitudine e sull’irriconoscenza, tra i mali più sottili e corrosivi della natura umana.
Colpiscono non solo chi n’è vittima, ma anche chi la pratica, poiché rivela una profonda miopia etica e spirituale. Le loro radici affondano in un terreno fertile di egoismo, disinteresse e incapacità di riconoscere il valore dell’altro. Questo tema, antico quanto l’uomo, ha attraversato epoche e culture, venendo analizzato da filosofi, scrittori e pensatori che ne hanno tratto riflessioni universali.
Quando una persona s’impegna, apporta un contributo unico e si distingue per talento o dedizione, si aspetta di essere riconosciuta. Tuttavia, la società, spesso guidata da logiche utilitaristiche o da un’inerzia morale, tende a dimenticare il valore del singolo, relegandolo in una massa indistinta. In quel momento, la presa di coscienza diventa dolorosa: il proprio impegno e il valore aggiunto sembrano inutili, spingendo l’individuo ad un atteggiamento d’indisonibilità per il futuro, ovvero verso il cinismo o il rifiuto di impegnarsi nuovamente. Questo ciclo di ingratitudine, che genera amarezza e delusione, si è manifestato in vari periodi storici. Già Seneca, nelle sue Lettere a Lucilio, ammoniva contro l’ingratitudine, descrivendola come una delle peggiori colpe umane. Per il filosofo stoico, non riconoscere i benefici ricevuti equivale a un tradimento della virtù, poiché l’uomo ingrato non solo disprezza il dono, ma danneggia anche se stesso, negandosi la possibilità di un rapporto autentico con l’altro.
L’ingratitudine ha spesso avuto conseguenze disastrose nella storia. Un esempio classico è quello di Giulio Cesare, il cui assassinio da parte di Bruto e altri cospiratori può essere letto, almeno in parte, come un atto di ingratitudine. Cesare aveva mostrato generosità nei confronti di molti dei suoi nemici e alleati, concedendo loro il perdono e onori; tuttavia, la sua ambizione e il suo desiderio di centralizzare il potere scatenarono il tradimento.
La famosa frase “Tu quoque, Brute, fili mi?” (Anche tu, Bruto, figlio mio?) esprime tutta la tragedia dell’ingratitudine, un atto che distrugge non solo il legame personale, ma anche il tessuto sociale e politico.
Un altro esempio significativo è rappresentato dalla Rivoluzione Francese, in cui molti leader che avevano guidato il popolo verso la libertà, come Danton e Robespierre, furono travolti dalla stessa macchina rivoluzionaria che avevano contribuito a costruire. Il popolo, ingrato verso chi aveva sacrificato la propria vita e reputazione per un ideale, si rivelò incapace di riconoscere il valore del loro operato.
Nella società moderna, l’ingratitudine si manifesta in forme diverse ma altrettanto pervasive. L’ossessione per il successo personale e la costante ricerca del prossimo beneficio tendono a relegare il passato nell’oblio.
Questo atteggiamento è evidente nel mondo del lavoro, dove l’impegno e il sacrificio di un dipendente possono essere rapidamente dimenticati di fronte alle logiche del profitto. Allo stesso modo, nelle relazioni personali, l’ingratitudine si manifesta spesso nella mancanza di empatia e nella difficoltà di riconoscere il valore del tempo e dell’amore altrui.
Un esempio emblematico è rappresentato dalla cultura dei social media, dove il riconoscimento pubblico sembra sostituire l’apprezzamento autentico. La gratitudine diventa un gesto superficiale, un “like” o un commento che perde presto di significato, lasciando l’individuo nuovamente immerso in un anonimato indistinto.
La soluzione al male dell’ingratitudine richiede uno sforzo culturale ed etico. In primo luogo, occorre riscoprire il valore della memoria, personale e collettiva. Ricordare i benefici ricevuti, non solo quelli materiali ma anche quelli spirituali, è un atto di giustizia verso chi li ha offerti e verso se stessi. In secondo luogo, è necessario educare alla gratitudine, che non deve essere vista come una mera formalità, ma come un atto autentico di riconoscimento.
Come scriveva Cicerone, “La gratitudine non è solo la più grande delle virtù, ma la madre di tutte le altre.” Una società grata è una società che costruisce relazioni basate sulla fiducia e sul rispetto reciproco.
Infine, per chi si sente vittima dell’ingratitudine, piuttosto che dell’irriconoscenza, è importante non lasciarsi sopraffare dal cinismo. Come suggerisce il Cristianesimo, il bene fatto non va rimpianto, anche quando non viene riconosciuto: “non stanchiamoci di fare il bene” (Bibbia, Galati 6:9). Questa prospettiva aiuta a preservare la propria integrità morale e a continuare a contribuire al bene comune, nonostante le delusioni.
Con il loro potere di ferire e disilludere, rappresentano, dunque, una delle esperienze più amare che si possano vivere. Tuttavia, non devono spegnere il desiderio di fare il bene e di lasciare un’impronta positiva nel mondo. Solo coltivando la gratitudine, a livello personale e sociale, possiamo costruire una società più giusta, in cui il valore aggiunto di ciascuno non venga confuso nella massa, ma riconosciuto e celebrato.
Salvatore De Pascale
Comunicatore – Critico d’Arte
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1 Comment
La lettera ai Galati ci da la direttiva anche politicamente e socialmente, i campi in cui l’ ingratitudine diventa se non la regola sicuramente non l’ eccezione. Quanti sforzi e quanto ci siamo spesi per un mondo migliore, per la rifondazione della nostra nazione Duosiciliana? E quali sono stati i risultati? La risposta a questa domanda non va nemmeno data, questa domanda non va fatta, questa e’ la strategia contro l’ingratitudine, non chiedersi a cosa e’ servito, cosa ho avuto in cambio. La risposta all’ ingratitudine è la soddisfazione personale di aver fatto il meglio che si poteva, di averci messo l’ entusiasmo e di aver fatto la cosa giusta. Dell’ altrui giudizio, anche quando l’ altrui sono la storia o il popolo, non ci deve importare niente. San Paolo insegna, anche con i risultati del suo operato, che se si fa e si continua a fare la cosa giusta senza stancarsi i risultati arrivano e l’ ingratitudine del momento puo’ essere vinta dalla gratitudine del risultato futuro. E se il risultato futuro non arriva? Non importa, vivere secondo i giusti principi e’ un pezzo di paradiso sulla terra perche’ ci fa essere fieri e contenti di noi e di quello che facciamo, quindi un risultato positivo si raggiunge anche quando altri risultati non arrivano. Grazie del bell’ articolo.