Ai??Divinatorie, simboliche, nutrienti, gustose, le carni dette “povere” hanno da sempre occupato uno spazio importante nelle culture alimentari e rituali dell’uomo, cosAi?? anche in Abruzzo, essendo tra l’altro espressione dello stato di salute dell’animale. Rappresentavano probabilmente il vero senso divinatorio per i sacerdoti che prevedevano, dalla qualitAi?? delle viscere, la possibilitAi?? di usare gli animali per la sopravvivenza alimentare delle loro popolazioni. Chi le ama a dismisura e chi le guarda con disgusto: sono quelle carni considerate dai piA? sinonimo di bassa macelleria. Organi interni, frattaglie, rigaglie, teste, code e zampe infatti, sono da sempre stati destinati ai ceti piA? bassi della popolazione. La gastronomia abruzzese, legata alla civiltAi?? contadina e alla consuetudine delle transumanze, A? tradizionalmente definita povera. La storia ci ricorda che ci sono stati momenti difficili per la popolazione, caratterizzati da quella alimentazione definita “cucina della fame”. L’alimentazione anche nei momenti meno difficili, era costituita dai prodotti poveri della pastorizia, da pane solitamente fatto in casa, prodotti dell’orto, da animali da cortile che venivano sacrificati solo in particolari occasioni. Nel periodo di Natale, quelli che potevano permetterselo, uccidevano il maiale, a Pasqua la pecora anziana e raramente l’agnello; nelle festivitAi?? l’utilizzo del pollame era in base alle disponibilitAi?? dei nuclei familiari. La carne bovina era un sogno. I pastori riservavano rigorosamente la carne scelta ai padroni e ai signori, mentre lasciavano a loro, alla gente comune e agli indigenti le interiora e gli scarti degli ovini, e con questi la fantasia culinaria popolare ha creato pietanze favolose, nutrienti e ricercate.
 
Fonte: www.accademiaitalianacucina.it
 
 
 
 
 
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