Flavio Gioia
Le invenzioni dei duosiciliani cancellate dai tosco – padani
Di Fiore Marro
Caserta 6 gennaio 2019
Il mio primo articolo per il 2019 voglio dedicarlo alle invenzioni, naturalmente tratterò di quelle che riguardano il regno delle Due Sicilie.
Cosa non è stata inventata nel Regno del Borbone? Tanto ché nel 1848 il Regno delle Due Sicilie fu riconosciuto come lo stato più evoluto, più moderno, più civile tra tutti gli Stati dello stivale, più progredito, soprattutto, dello stato Sabaudo.
I nostri colonizzatori nordisti, pur di declassare o mettere alla berlina le Due Sicilie, si sono dilettati a celebrare gli stranieri pur di non dare merito ai nostri inventori, fino al punto di dare lustro a tutti quelli che non erano in odore di borbonismo, come ad esempio l’attribuzione dell’invenzione della bussola fu ascritta ai cinesi e non Flavio Gioia perché amalfitano, quindi duosiciliano, morto di fame e ignorante, come si legge nei testi scolastici obbligatori nelle scuole di stato.
Così si ripete la stessa logica per l’architetto Gaetano Genovese che era nato a Eboli, vicino Napoli.
Sono molti gli esempi che possono essere ricordati da noi, ma dimenticati dai tosco-padani che volutamente hanno voluto tramandarci l’ignoranza e la fame del popolo meridionale, aiutati in questo dalla cultura ipocrita e dalla politica ignorante venduta ad un sistema clientelare aberrante sotto tutti i punti di vista.
Come la famosa forchetta napoletana.
Le stesse posate, sconosciute nel medio evo, furono condannate dai Veneziani, quando nel 1003, Maria Argyra di Bisanzio, venuta a Venezia per sposare il figlio del Doge, le portò nell’antica repubblica marinara: il demoniaco oggetto fu messo al bando dai Veneziani. Solo nel XVIII secolo, Ferdinando IV di Borbone, volendo celebrare il matrimonio con spaghetti e pomodoro, impose al ciambellano di corte di trovare una soluzione adeguata; Gennaro Spadaccini trovò la soluzione di accorciare i rebbi molto lunghi che erano solo due e di portarli a quattro per meglio attorcigliare gli spaghetti.
Questa soluzione convinse il re ed anche la regina Maria Carolina, che per la sua rigida educazione Asburgica “non poteva tollerare che il re consumasse gli spaghetti a sugo con le dita”. Il ciambellano di corte impose il nome di “forchetta Napoletana” alla nuova posata.
Quando nel 1799 i francesi costrinsero il re Ferdinando e Carolina a trasferirsi a Palermo, portarono oltre i tesori Napoletani anche cibi, piatti e le famose forchette Napoletane.
Gli esemplari della forchetta, esistono ancora a Napoli al Museo Nazionale della ceramica “Duca di Martina“ nella villa Floridiana, dove si possono ammirare le forchette a 2 o 3 rebbi di provenienza Francese o Veneziane vicino a quelle Napoletane a 4 rebbi attualmente in uso. Eppure ancora oggi, nei libri di testo utilizzati dallo stato Italiano, colonizzatore del sud, leggiamo chiaramente che il sud era povero sotto il regime feudale e incolto, ma nessuno degli storici ipocriti dice che prima del 1861 l’emigrazione aveva raggiunto alti valori percentuali solo negli stati del nord Italia, particolarmente in Lombardia dove emigravano nel Messico, con Garibaldi in testa.
“Non vi lasceranno neanche occhi per piangere!” Con questa frase, Francesco II di Borbone, legittimo Re delle due Sicilie, lasciò la capitale e si ritirò a Gaeta. A conti fatti come potevano lasciarci la nostra forchetta visto il magna-magna che vige dal 1861?