di Mario Montalto
Premessa
“Audiatur et altera pars”
Dei soldati delle Due Sicilie si è parlato poco e, nella maggior parte dei casi, con tono beffardo o con sprezzante sufficienza, alimentando così la novellistica “sull”esercito di Franceschiello”.
Chi non ricorda le numerose barzellette di cui erano oggetto i soldati napoletani? Quella che si riferisce al vario grado di marzialità che la truppa doveva assumere durante le sfilate: “Facite a faccia feroce!”; un po’ più avanti: “Facite a faccia cchiù feroce!”; poco prima di passare davanti alle autorità: “Facite a faccia ferocissima!”; subito dopo: “Facite a faccia e’ fessi”. E quel soldato che, durante la battaglia, chiede al suo capitano: “Capità fuimme?” e si sente rispondere dal suo comandante: “Aspettate l’ordine!”. E l’altra secondo cui, quando dovevano fare addestramento formale, non riuscendo le reclute a distinguere il piede destro da quello sinistro, si legava su uno di essi un pennacchietto e poi l’ordine di marciare veniva così scandito: “C’u pilo e senz’u pilo c’u pilo e senz’u pilo”. Così come l’allineamento, a destra e a sinistra, diventava: “Allineamento ‘ncoppa a panza ‘e don Ciccillo!”.
Questo è il soldato borbonico che ci tramanda la storiografia ufficiale: imbelle, ignorante, furbastro, gretto e bigotto. In una parola, militarmente inesistente: nullo come soldato e come uomo.
Non abbiamo molto da imparare dagli statunitensi, ma una cosa certamente sì: il rispetto per lo sconfitto soldato del Sud.
L’occupazione yankee nel territorio degli Stati Confederati d’America non fu meno dura di quella piemontese nelle provincie del Regno, ma fu ed è esplicitamente riconosciuto il valore di quei vinti.
Lo dimostrano un’ampia produzione letteraria, storica come romanzesca, ed una altrettanto vasta filmografia (anche in vicende cinematografiche ambientate nella seconda guerra mondiale o in quella di Corea, si vede il soldato originario degli stati meridionali che custodisce in tasca o nello zaino (la “Dixie Flag”). In campo militare, poi, è significativa l’attribuzione a tipi di mezzi corazzati del nome di comandanti sudisti quali Lee e Stuart. Nel nostro esercito non si assegnano ai carri armati nomi di condottieri, ma, se così non fosse, sarebbe ipotizzabile un carro “Ritucci” o”Bosco”? Basti pensare che, mentre la nascita dei reggimenti di origine piemontese viene fatta risalire ai più remoti manipoli di armigeri1, nessun legame è mai stato riconosciuto tra i reggimenti di fanteria napoletani “Napoli”, “Calabria”, “Puglia”, “Abruzzo”, “Palermo”, “Messina” e i loro omologhi dell’esercito italiano.
Questi ultimi, infatti, nascono soltanto ad unificazione avvenuta:è prima c’era il nulla.Il nostro grande sovrano Ferdinando II dette, sotto questo profilo, una lezione di civiltà e di stile allegenerazioni future quando consentì che uscissero dall’oblio le gesta dei soldati napoletani che avevano combattuto sotto Gioacchino Murat. Con la pubblicazione dell’Antologia Militare,diretta da Antonio Ulloa e iniziata nel 1835, cominciò infatti la rievocazione degli eventi passati anche se soltanto sotto i profili storico e tecnico-militare.
E’ ormai patrimonio universale l’amaro principio secondo cui le verità dei vinti sono bugie e le bugie dei vincitori sono verità e di queste ultime conosciamo il concetto informatore, espresso dall’umorista catanese Massimo Simili nel romanzo “Lei Elena”, ambientato nella Troia postbellica,
con le parole che egli pone sulla bocca del supremo condottiero acheo Agamennone: “Il sommo Zeus ci è testimone che la Grecia visse sempre nel culto delle arti e dei lavori domestici e non cercò mai l’espansione.
Se la Grecia si è espansa, ciò è stato solo per portare la civiltà e l’uguaglianza l’ove dominava la barbarie”.
L’amara ironia di Simili ci chiarisce bene le idee: il vinto è incivile e barbaro e, allora, che cosa vuole Taccia.
E, se non gli riesce di redimersi, si faccia almeno dimenticare.
Noi, invece, non vogliamo dimenticare il soldato napoletano, ma anzi ricordarlo e tramandarne alle nuove generazioni la memoria.
Questo, perchè un popolo non può rinnegare il proprio passato a pena di rinnegare sè stesso.
Ciò, anche se è stato sconfitto, perchè crediamo con Walt Whitman che “le battaglie si vincono o si perdono con identico cuore” e, con Rostand, che “più bello è battersi quando è invano”.
1 Emblematico è, al riguardo l’articolo “La nascita della Cavalleria Sabauda”, di Umberto Burla,apparso sulla “Rivista Storica”, aprile 1996.
NASCITA DELL’ESERCITO DELLE DUE SICILIE
La sua data di nascita va collegata alla legge del 25 novembre del 1743, con la quale il re Carlo III dispose la costituzione di 12 reggimenti provinciali, tutti composti da cittadini del Regno, nonchè di una compagnia di fucilieri da montagna, lontana antenata delle truppe alpine e le cui caratteristiche ordinative, di armamento e di equipaggiamento ne fecero il primo modello del genere nella storia moderna italiana.
Il 25 marzo dell’anno successivo, il neonato esercito subì il primo collaudo, contro gli austriaci, alla battaglia di Velletri. Essa segnò la sua prima, grande vittoria, cui parteciparono reggimenti interamente napoletani, come il “Corona” ed il “Terra di Lavoro”, comandato dal duca di Ariccia, e che ressero magnificamente il confronto con i reggimenti stranieri di più antica tradizione. In quel periodo – piccola curiosità storica – prestò servizio nel reggimento “Fonseca” Pasquale Paoli, il futuro capo dell’irredentismo corso: allorchè era ufficiale gli furono concessi sei mesi di congedo ed egli si recò nella sua isola a guidarne la lotta per l’indipendenza.
Negli ultimi anni del regno di Carlo III l’esercito era stato, però trascurato e tale stato di cose si protrasse anche con il nuovo sovrano Ferdinando 1 finchè la regina Maria Carolina non si fece promotrice del potenziamento e del sostanziale rinnovamento delle forze armate delle Due Sicilie, avvalendosi dell’ammiraglio irlandese John Acton, che, giunto a Napoli, nel 1778 e nominato ministro della guerra e della marina, riorganizzò dapprima quest’ultima e successivamente le forze terrestri, iniziando la sua opera col formare una classe di ufficiali – quasi inesistente in quel momento – che conoscesse veramente il mestiere delle armi. A questo scopo istituì nel 1786 la “Reale Accademia Militare”, che il 18 novembre 1787 iniziòi propri corsi nell’ex collegio dei Gesuiti presso la chiesa dell’Annunziatella a Pizzofalcone.
Le forze armate, così rinnovate, sostennero più che degnamente la loro prova del fuoco all’assedio di Tolone, nel quadro dell’alleanza con l’Inghilterra contro la Francia. Seimila soldati napoletani parteciparono alla difesa della città e furono gli ultimi a reimbarcarsi. Il corpo di spedizione rientrò in patria il 2 febbraio 1794, avendo avuto circa 200 caduti e 400 feriti. Ugualmente degna fu l’attività della componente navale, fornita dal Re di Napoli per le operazioni in Mediterraneo e consistenti in quattro navi di linea, quattro fregate e altrettante unità minori.
GIOACCHINO MURAT
Le vicende che portarono al regno di Murat dettero anche vita ad un nuovo strumento militare che fornì ottime prove di sè, partecipando alla campagne di Spagna, Tirolo, Germania, Russia, nonchè a quelle italiane del 1814 e del 1815 e fu l’ultimo – tra gli eserciti non francesi, ma di matrice napoleonica – a cedere le armi. Per tutti valga l’esempio del 5 dicembre 1813, in Russia, quando la cavalleria napoletana scortò Napoleone da Ochmiana a Vilno: ufficiali e soldati indossarono la grande uniforme, come per una parata, e, senza mantelli nè pellicce, con una dimostrazione tipica dell’amore delle nostre genti per il bel gesto, in una gelida notte accompagnarono l’imperatore.
Su trecento cavalieri ne giunsero a Vilno solo trenta; gli altri erano rimasti lungo il cammino: uccisi dal freddo o negli scontri con la cavalleria cosacca; gli stessi comandanti, il generale Florestano Pepe e i colonnelli Campana e Roccaromana riportarono congelamenti alle dita delle mani e dei piedi e ne rimasero mutilati.
Il generale Bianchi, comandante delle forze austriache nella campagna contro Murat, ebbe, nella sua relazione, queste parole per i nostri soldati: “Il soldato napoletano ha combattuto con molto valoreAi??in Ispagna, in Russia e in Germania, per interessi a lui estranei e anche nel corso di questa campagna ha dimostrato elevate capacità, specialmente nella battaglia di Tolentino, nella quale gli austriaci hanno dovuto compiere sforzi considerevoli e affrontare penosi sacrifici per strappare la vittoria”.
FERDINANDO II
Ferdinando II salì al trono 1′ 8 settembre del 1830 e, fino dai primi anni del suo regno, dimostrò sia un vivo interesse per le forze armate sia il possesso di notevoli capacità militari.
Paragonabile in questo a Federico Guglielmo I di Prussia, non ebbe per la fortuna di un successore che, al pari di Federico il Grande, sapesse utilizzare al meglio, nelle competizioni internazionali, quello strumento militare che il suo predecessore aveva costruito e perfezionato in ogni dettaglio. Re Ferdinando si fece promotore di una legge sul reclutamento completa ed esauriente e migliorò moltissimo il sistema disciplinare, l’armamento e l’equipaggiamento.
Nel 1835 il generale francese Oudinot, in un libro intitolato “De l’Italie et de ses forces militaires”, scrisse: L’esercito napoletano è istruito e molto bello. Le truppe che lo compongono sono oggetto di una sollecitudine attiva e illuminata da parte di un sovrano dotato di inclinazioni militari Infine esso possiede, in tutte le armi, ufficiali di alto merito”.
Nel 1848, poi il capitano Le Messon, critico militare svizzero di fama europea, scriveva che gli italiani sarebbero stati grati a Ferdinando II per avere dato inizio alla nuova formazione dello spirito militare nella penisola.
In sostanza l’esercito fu rinnovato moralmente, materialmente e tecnicamente in meno di dieci anni.
Del suo valore offrì, tra le altre, due prove particolarmente significative: i combattimenti diAi??Curtatone-Montanara-Goito e l’operazione anfibia su Messina.Ai??I primi si svolsero nel quadro della partecipazione, politicamente discutibile, dell’esercito borbonicoAi??alla guerra del 1848 (quella che poi passerAi?? alla storia come I guerra d’indipendenza). Il 29 maggioAi??il maresciallo Radetzky, uscito in forze da Verona, lanciA? all’attacco ventimila uomini, appoggiatidal fuoco di cinquantadue pezzi d’artiglieria, contro cinquemilaquattrocento tosco-napoletani. IAi??soldati delle Due Sicilie, in particolare, consistevano in 1516 combattenti del 10Ai?? ReggimentoAi??Fanteria di Linea “Abruzzo” e di un battaglione di volontari. Malgrado la forte inferioritAi?? numericaAi??le truppe si batterono con slancio; tra i napoletani caduti vi fu anche il professor Pilla, comandanteAi??degli “allievi volontari pisani”.
A Montanara il nemico occupA? il cimitero e vi pose in batteria quattro cannoni, che sparavano aAi??mitraglia, con alzo zero. I napoletani contrattaccarono alla baionetta numerose volte perAi??riconquistare la posizione, guidati dal comandante del II/10Ai?? magg. Spedicati e, dopo che questi fuAi??ferito, dal cap. Catalano. Caddero 183 uomini tra i quali cinque ufficiali e un portastendardo (ma laAi??bandiera del battaglione fu salva). Il sessantenne capitano Cantarella fu decorato da Carlo Alberto eAi??onorifiche distinzioni toccarono ad altri ufficiali napoletani.
Il successivo giorno trenta i soldati meridionali tornarono a ricoprire il ruolo di protagonisti: questaAi??volta a Goito. Il col. Rodriguez, comandante del 10′ “Abruzzo”, ricevAi?? l’ordine di tenere laAi??posizione ad ogni costo. E la tenne, arginando l’avanzata austriaca e favorendo cosAi?? la vittoria. AlAi??termine della battaglia il comandante piemontese del settore, generale Bava, strinse la mano alcolonnello napoletano e lo ringraziA? per quanto egli e i suoi soldati avevano fatto. Qualche giornoAi??dopo Rodriguez fu insignito della Croce dei Santi Maurizio e Lazzaro mentre alcuni suoi ufficialiAi??furono decorati.
Nel quarto volume della “Storia del Risorgimento italiano” di Cesare Spellanzon, i combattenti diAi??Curtatone e Montanara sono sempre citati come “i valorosi toscani e napoletani”, ma nella storiaAi??ufficiale e specialmente in quella ad uso delle scuole, i napoletani sono ignorati, al pari del lorovaloroso comandante. Sull’obelisco, poi, eretto sui luoghi della battaglia, sono scolpiti soltanto iAi??nomi dei toscani, mentre sono stati deliberatamente omessi quelli dei combattenti delle Due Sicilie.
Unico commento adeguato sembra essere un verso di Ernesto Murolo: “E cchesta A? a Storia, ca iocaAi??a palla e a chiamma veritAi??!”.
Ma passiamo allo sbarco di Messina.
Nel biennio cruciale 1848-1849 l’esercito borbonico fu impegnato anche nell’interno, domando laAi??rivolta a Napoli e in Sicilia. AffrontA? queste prove, che non potevano non disorientare anche gliAi??spiriti piA? solidi, con compattezza globale e si dimostrA? una forza efficiente, pronta, fedele alleAi??istituzioni.
In Sicilia, dopo il reimbarco delle truppe napoletane, si era costituito un esercito locale, comandatoAi??dal generale polacco Mieroslawsk2. Il 30 agosto del 1848 uscAi?? dal Golfo di Napoli una forza navale,Ai??comandata dal brigadiere Cavalcanti e composta da tre fregate a vela (Regina, Isabella e Amalia),Ai??sei a vapore (Sannita, Roberto il Guiscardo, Ruggero il Normanno, Archimede, Carlo III, Ercole),Ai??due corvette a vapore (Stromboli e Nettuno), otto cannoniere ed altro naviglio minore perAi??complessivi 246 cannoni di vario calibro. La componente anfibia era costituita da sette piroscafi perAi??il trasporto delle truppe mentre venti barconi fungevano da mezzi da sbarco. Comandante del corpoAi??di spedizione era il generale Filangieri.Ai??Alle otto e trenta del mattino del 6 settembre, dopo che le artiglierie navali ebbero provveduto ad unAi??adeguato “ammorbidimento” delle posizioni avversarle, il reggimento “Real Marina” (i “marines”Ai??borbonici) prese terra e costituAi?? una testa di sbarco, consentendo l’afflusso dei reparti terrestri. IAi??combattimenti furono accaniti, feroci addirittura, ma alle diciassette del giorno successivo ilAi??Filangieri telegrafA? al Re: “Messina riconquistata rientra sotto il giogo del suo legittimo sovrano. LaAi??spaventevole difesa di due giorni non ha potuto arrestare la mirabile bravura delle truppe reali, cheAi??al grido di “Viva il Re!” hanno superato tutti gli ostacoli”. Al Sovrano, inoltre, il generale inviA? 64Ai??cannoni, 12 mortai e 21 bandiere. Nel maggio del 1849, poi, il generale riuscAi?? a fare capitolareAi??Palermo.
La riconquista di Messina fu elogiata dalla stampa e dal critici militari stranieri, che la indicaronoAi??come un’operazione bellica persino piA? interessante di quella condotta dall’esercito di NapoleoneAi??all’assedio di Saragozza.
Vale, peraltro, la pena di osservare che Re Ferdinando si vide affibbiare l’appellativo di “re bomba”,Ai??mentre Vittorio Emanuele II, che farAi?? bombardare Genova, si accingeva a passare alla storia comeAi??”re galantuomo”.
LA FINE
La sfortunata campagna del 1860, che portA? alla fine del Regno, A? fin troppo nota perchAi?? su di essaAi??ci si debba soffermare a lungo. E’ il caso di accennare soltanto ad alcuni episodi e ricordare qualcheAi??nome.
2 Leggere “Mierosuafschi”.A Caiazzo i soldati borbonici del generale Colonna di Stigliano e del colonnello La Rocca conseguirono un brillante successo sui garibaldini dell’ungherese TA?rr, che perdette un migliaio diAi??uomini e dovette ritirarsi, lasciando una gran quantitAi?? di prigionieri, tra cui otto ufficiali cheAi??avevano cercato rifugio presso il da loro bistrattato vescovo di Capua (quest’ultimo episodio A?Ai??magistralmente rievocato da Carlo Alianello ne ”L’Alfiere”). Da ricordare l’alfiere Dioguardi, cheAi??presentA? a Sua MaestAi?? Francesco II due bandiere prese al nemico.
Il 1 ottobre le truppe napoletane attaccarono da Capua, travolgendo le prime linee garibaldine. LoAi??stesso Garibaldi fu sorpreso da un attacco dei cacciatori napoletani ed ebbe ucciso il cocchiere eAi??ferito un ufficiale del suo stato maggiore. I garibaldini, di fronte ai reggimenti borboniciAi??entusiasticamente decisi a difendere il loro re e la loro patria, ebbero a rodere un osso veramenteAi??duro e capirono che la fortezza di Capua difficilmente avrebbe capitolato. Per prenderla, infatti,Ai??occorreranno poi il bombardamento e le truppe piemontesi.
Quella del Volturno, combattuta in quel giorno e nel successivo, fu la battaglia decisiva, condottaAi??offensivamente dai borbonici e difensivamente dai garibaldini. Fu assai dura e cruenta per entrambeAi??le parti: l’una puntava a riaprire la strada per Napoli, rientrare nella cittAi?? e sollevare la popolazioneAi??contro gli invasori; l’altra ad impedirlo, atteso anche che la liberazione della capitale avrebbe potutoAi??segnare l’inizio di un’insurrezione generale (e che questo potesse avvenire fu confermato da diversiAi??tumulti pro borbonici che scoppiarono nell’immediata periferia di Napoli quando giunse voce cheAi??l’esercito delle Due Sicilie aveva attaccato battaglia e stava vincendo).Ai??Per entrambi i contendenti fu l’unica, vera, importante battaglia campale combattuta dallo sbarco diAi??Marsala e ad essa parteciparono anche reparti piemontesi. La strada per Napoli non fu aperta eAi??questo segnA? la fine. Le nostre truppe caddero ancora una volta nell’errore di frazionare le loro forzeAi??e non seppero individuare quello che i tedeschi definiscono “Schwerpunkt” concentrando tutto loAi??sforzo su di esso. Tuttavia i soldati si batterono con coraggio e determinazione (con la sola negativaAi??eccezione, secondo qualche fonte, dei reggimenti della guardia). Il generale von Meckel,Ai??comandante la brigata carabinieri esteri, vi perse il proprio figlio, giovane tenente, ne vide il corpoAi??senza vita, gridA?: ai???Vive le Roi!ai??? e continuA? a combattere.
Al largo del Golfo di Gaeta bordeggiavano le navi della Marina Sarda. Avevano sostituito quelleAi??francesi, che avrebbero dovuto coprire dal mare il fianco destro dell’esercito napoletano, disteso aAi??difesa sul Garigliano. Questo aveva promesso Napoleone III al Re, ma poi si era rimangiato laAi??parola, scoprendo irrimediabilmente lo schieramento borbonico. Sulla marina e lungo l’Appia, fraAi??Traetto e Mola di Gaeta, con l’ordine di ritirarsi appena fosse venuto a contatto con i piemontesi, unAi??leggerissimo velo di truppe. Tra queste due compagnie del VI Btg. Cacciatori, comandate dal cap.Ai??Bozzelli e attestate tra i canneti, lungo la riva del fiume.
Il nemico tentA? di attraversare il Garigliano in forze, avvalendosi di due ponti di barche, costruitiAi??piA? a valle di quello in ferro che credeva minato.
“Erano un pugno di uomini ostinati a fronteggiar tutto un esercito”, racconta Alianello neAi??”L’alfiere”, “su quel quadratino di verde fra il bigio della sabbia e il bruno dei campi le granateAi??scoppiavano una dopo l’altra, come se piovesse. … Volevano far vedere ai signori piemontesi, aiAi??vincitori di San Martino e di Castelfidardo, dell’Austria e degli zuavi internazionali del Papa, comeAi??sappia morire l’umile gente napoletana. EpperciA? la moschetteria rintronava sulla sponda del fiumeAi??e fra le nubi degli spari, che di lontano parevan diafane, danzavano i lampi rossi. Allora contro quelAi??poco di uomini aprAi?? il fuoco anche la flotta; i piemontesi avevan fretta davvero… Da tutte le partiAi??tiravan su quel poco di terra e quel manipolo di uomini. Poi si levA? un bagliore chiaro, paglierino,Ai??traslucido: i fusti avevano preso fuoco e del canneto la metAi?? giAi?? ardeva. Ma le carabine rispondevano ancora, una di meno, due, dieci di meno ad ogni scarica, come un singulto staccato,Ai??spezzato da pause sempre piA? lunghe… Ancora qualche colpo di carabina, due, tre… Il frastuonoAi??delle cannonate occupava sempre piA? il mare e la terra… SchioccA? un altro colpo e piA? nulla…
Bozzelli non poteva rispondere nAi?? tornare, che era rimasto lAi??, come aveva deciso. E l’intero esercitoAi??piemontese aveva dovuto attendere un’ora per passare”.
Gaeta A? l’epopea di cento giorni di resistenza ad un bombardamento fatto con artiglierie rigateAi??contro cannoni ad anima liscia, nella quasi totalitAi??, e con gittate sensibilmente inferiori. L’epopea diAi??una giovane coppia regale, che, circondata da valorosi soldati, votati al sacrificio ed alla morte,Ai??vedeva smantellare giorno dopo giorno, bastioni, batterie, polveriere e poi infierire il tifo, mentre leAi??navi di Persano (il futuro “condottiero” di Lissa) Ai??ombardavano agevolmente le pattuglieAi??borboniche che si spingevano in esplorazione lungo il litorale. Ma i soldati e gli ufficiali napoletani non volevano arrendersi e questo, certamente, non per la speranza di carriere o di futuri benefici.
Resistevano e morivano ed i superstiti resistevano ancora: il tenente d’artiglieria Savio, mortoAi??mentre puntava un cannone, era immediatamente sostituito dal fratello, che poco dopo cadevaAi??anch’egli sul suo cadavere.
Le perdite degli assediati consistettero in 506 morti per ferite e 307 per malattia, 743 dispersi -daAi??considerare parimenti morti – e 800 feriti fuori della piazzaforte. Quelle nemiche si limitarono a 50Ai??e 350 feriti 3.
E’ il caso di rilevare come, mai nella storia, dalla notte dei tempi a vicende abbastanza recenti, unaAi??coppia regale o principesca abbia saputo dimostrare tanto sublime coraggio quanto Sua MaestAi??Ai??Francesco II e la Regina Maria Sofia, i quali, oltre tutto, erano pienamente consapevoli d’avere giAi??Ai??perduto la loro battaglia ed il loro trono.
La piazzaforte di Messina, al comando del brigadiere, poi, maresciallo di campo, Gennaro Fergola,Ai??si arrese il 12 marzo 1861, quasi un mese dopo la caduta di Gaeta. Degna di memoria A? la dignitosaAi??e composta fermezza del generale Fergola a fronte della banditesca arroganza di Cialdini, il qualeAi??aveva minacciato – ove non si fosse arreso – di trattare lui e i suoi uomini come ribelli e che, dopo laAi??cessazione delle ostilitAi??, sottopose ad un consiglio di guerra quattro ufficiali borbonici. Consiglio diAi??guerra, che – forse per un residuo senso del pudore – si concluse con il proscioglimento. Eai??i?? uno deiAi??primi esempi, anche se incompiuto stante l’esito incruento, di quella criminalizzazioneAi??dell’avversario e del vinto che, figlia legittima degli “immortali principi dell ’89”, domina il mondoAi??moderno.
E’, infine, da ricordare che nessuna bandiera cadde in mano al nemico: quelle del forte, deiAi??reggimenti di fanteria 3Ai?? Principe, 5Ai?? Borbone e 7Ai?? Napoli, nonchAi?? dei 2Ai?? Artiglieria Regina eranoAi??state lacerate dai soldati napoletani in piccoli pezzi e i frammenti distribuiti e gelosamente custoditi.
La fortezza di Civitella del Tronto ricordava gli assedi sostenuti contro i francesi del Duca diAi??Guisa, che fu respinto nel 1557, e contro le truppe napoleoniche nel 1806. In questa secondaAi??occasione si era distinto il comandante della rocca, il maggiore irlandese Matteo Wade (o Wood).
Nel 1860, perA?, l’importanza strategica di Civitella era quasi nulla, perchAi?? nuove strade
3 Salta agli occhi lo squilibrio tra le perdite napoletane e quelle piemontesi e non si puA? fare a meno di pensare che, da parte nostra, ad un grande valore si sia affiancata un’intelligenza tattica diAi??livello sensibilmente inferiore.consentivano l’accesso in Abruzzo, passandole al largo e la fortezza era ridotta in pessimeAi??condizioni tant’A? che vi fu inviato il capitano del genio Carlo Mensingher per urgenti lavori diAi??riparazione.
La guarnigione contava, secondo le diverse fonti, dai 450 ai 650 uomini tra veterani, artiglieri,Ai??artiglieri litorali, volontari armati e due compagnie del 3Ai?? Reggimento Gendarmeria, agli ordini delAi??capitano Giuseppe Giovine, in ripiegamento da Teramo. L’artiglieria consisteva in 26 vecchieAi??bocche da fuoco4 . Comandante della guarnigione era un anziano ufficiale richiamato, il maggioreAi??della fanteria sedentaria Luigi Ascione; suo vice il pari grado Domenico Salinas e aiutante maggioreAi??il quarantaduenne capitano Giovanni Raffaele Tiscar, distaccato dal XII Cacciatori5 .
L’effettivoAi??comando della difesa fu ben presto assunto dal capitano Giovine, ufficiale di solida tempra.
Le vicende di Civitella del Tronto sono, in realtAi??, assimilabili piA? alla resistenza armata che siAi??sarebbe successivamente sviluppata nel Regno che non ad un capitolo dell’ultima campagna diAi??guerra dell’Esercito borbonico. CiA?, sia per la mancanza di prospettive strategiche nella resistenzaAi??della rocca sia per la composizione della guarnigione (truppe territoriali), per l’intervento di paesaniAi??armati, per l’opposizione senza esclusione di colpi al piemontese generale Pinelli, che spinge ad unaAi??lotta feroce e senza quartiere con il suo reprimere duramente e Ai??ommariamente. “Contro tali nemiciAi??la pietAi?? A? un delitto”, scriverAi?? nel suo proclama alle truppe del 3 febbraio.
L’assedio subAi?? alterne vicende, con sortite degli assediati, lotte tra fazioni interne (risoluti e tiepidi),Ai??presenza nelle file nemiche anche di meridionali (guardie nazionali e “Battaglione Sannita”),Ai??fucilazione facile nei confronti dei contadini, che, eccessiva anche per un piemontese, portA? alla sostituzione del Pinelli con il generale Mezzacapo. Il 20 marzo la fortezza finalmente si arrese eAi??l’episodio finale consistAi?? nella vendetta consumata da una commissione di guerra che fucilA? perAi??”brigantaggio” l’alfiere Angelo (o Domenico) Messinelli, il volontario Supino di Bonaventura ed ilAi??frate Leonardo Zilli. L’aiutante d’artiglieria Santomartino fu temporaneamente salvatoAi??dall’intervento di alcuni ufficiali francesi (che avevano Ai??accompagnato il generale borbonico DellaAi??Rocca, latore dell’ordine di resa firmato dal Re), ma la vendetta piemontese lo colpAi?? ugualmente: fuAi??ucciso a Savona, durante un preteso tentativo di fuga dal carcere. CosAi?? finAi?? l’avventura militare deiAi??soldati delle Due Sicilie, i quali avevano dimostrato valore e capacitAi?? militari di prim’ordine dallaAi??battaglia di Velletri, sotto il re Carlo III all’epilogo che, pur se contenuto in pochi mesi, raggiunseAi??toni epici.
Nel complesso il soldato risultA? migliore dei quadri: fu sempre fedele al Trono e compAi?? interamenteAi??il suo dovere. I quadri minori, poi, furono migliori di quelli piA? elevati.Ai??Nel 1860 alcuni capi tradirono, come Nunziante e Briganti; altri furono inetti come Ghio, Lanza eAi??Melendez. Alcuni furono fedelissimi come Bosco, Di Marco, Negri e von Meckel. Di Marco, inAi??particolare, invitato a cedere il forte di Sant’Elmo con la promessa di promozioni ed altri benefici,Ai??rispose: ai???L’onore di un soldato non si compraai???. Altri furono valorosi come Dusmet, che cadde sulAi??4 I pezzi efficienti erano, infatti, 20 cannoni, tre obici, due mortai e una colubrina risalenteAi??addirittura ad epoca rinascimentale.
5 Il De Sivo li definisce seccamente “uomini da nulla”. L’Evangelista scrive: il maggiore AscioneAi??A? un debole, un opportunista… poi c’A? il capitano Tiscar, tutta un’altra personalitAi??, simpaticissimo eAi??cordiale, ma qui non siamo davanti al tavolino del CaffA? Reale di Teramo.campo con il figlio, come Bosco e come von Meckel e Rossaroll, che in veneranda etAi?? combattAi?? sulAi??Volturno, “perchAi??”, disse,”il soldato non A? mai in ritiro in tempo di guerra”. Alcuni fuggirono, comeAi??Vial e Castellucci. Altri dimostrarono buone doti di comando, come Salzano e Ritucci.Ai??I piemontesi, dal loro canto, avevano portato la guerra moderna: totale e ideologica, nella qualeAi??cavalleria, moralitAi??, rispetto del diritto non trovavano e non trovano piA? cittadinanza. Questo fu,Ai??probabilmente, l’aspetto veramente nuovo ed anticipatore del futuro che fu svelato a noiAi??meridionali. Noi non sapemmo adeguarci e se A? vero – com’A? vero – che non esiste disfattaAi??innocente, fu questa la nostra non lieve colpa.
Appendice
ai??i??.E LA STORIA CONTINUA.
La caduta di Civitella del Tronto e la guerriglia che divampA? contro l’invasore nelle provincie delAi??Regno, non posero ovviamente termine al tributo di sangue e di valore che, sotto nuove bandiere, iAi??meridionali avrebbero continuato a dare sui campi di battaglia: dalle guerre coloniali (in quellaAi??libica guadagnerAi?? la Medaglia d’Oro al Valor Militare l’abruzzese Giovanni Esposito, cheAi??nell’ultima guerra sarebbe stato valoroso comandante della Divisione Alpina “Pusteria”) ai dueAi??conflitti mondiali.
Sul primo basta citare le parole di uno studioso che certamente non ci ama, il professor Miglio, che,Ai??in un’intervista al quotidiano “Il Giornale” del 7 maggio di quest’anno, (1996) ha dichiarato: “Il SudAi??… ha sacrificato centinaia di migliaia di uomini sul Carso e sulle nostre montagne … Le TofaneAi??colavano di sangue”. Non possiedo dati complessivi sui militari delle nostre regioni, ma sonoAi??indicativi. e supportano le parole del professor Miglio, quelli relativi alla sola cittAi?? di Napoli,Ai??raccolti nell’ai???Albo d’oro dei napoletani caduti nella Grande Guerraai???, edito dal Comune nel 1924, eAi??che sono i seguenti: 4.493 caduti, dei quali 319 decorati al Valor Militare alla Memoria (19Ai??Medaglie d’Oro, 201 d’Argento e 99 di Bronzo).
L’ultima guerra, poi, ha visto i soldati del Sud combattere coraggiosamente e spesso morire sui variAi??fronti: dalla Russia all’Africa Settentrionale, dall’Impero all’Albania e alla Jugoslavia. Le sabbieAi??nordafricane hanno raccolto il sangue dei napoletani della Divisione “Bologna”, dei campani dellaAi??”Savona”, dei calabresi della “Brescia”, dei siciliani del 10Ai?? Reggimento Bersaglieri; il loro valoreAi??frutterAi?? due citazioni nei bollettini di guerra (545 del 1941 e 825 del 1942) alla DivisioneAi??”Bologna”, oltre alla Medaglia d’Argento ed una di Bronzo al suo 40Ai?? Fanteria, cosAi?? come iAi??calabresi guadagneranno una Medaglia d’Oro al 20Ai?? Fanteria “Brescia”. Tutti sopporteranno ilAi??logorio quotidiano di oltre trenta mesi di guerra nel deserto contro un avversario molto meglioAi??equipaggiato ed armato.
Il fronte greco-albanese vedrAi?? le gesta dei napoletani della Divisione “Siena” e dei siciliani dellaAi??Divisione “Piemonte”, mentre gli abruzzesi della Divisione “Pinerolo” conquisteranno unaAi??Medaglia d’Oro alla Bandiera del 13Ai?? Fanteria. E, a proposito di Abruzzesi, non si puA? dimenticareAi??il valore dimostrato, in Grecia prima e in Russia poi, dal Battaglione Alpino “L’Aquila” e il suoAi??sanguinoso sacrificio a Selenii Jar, in terra ucraina.Ai??Vanno, inoltre, ricordati i pugliesi della Divisione “Ferrara”, a ciascuno dei cui tre eggimenti (47Ai?? eAi??48Ai?? Fanteria e 14Ai?? Artiglieria) otterranno la massima decorazione al valore. Napoletano A?, infine, ilAi??1Ai?? Reggimento Bersaglieri, che conquista un Ordine Militare di Savoia e due Medaglie d’Argento.
Per il mare e per l’aria, i nomi di due Medaglie d’Oro alla Memoria: il messinese capitano diAi??corvetta Salvatore Todaro (cui la Marina dedicherAi??, poi, una nave), valoroso e cavallerescoAi??sommergibilista atlantico, passato in seguito ai Mezzi d’Assalto e ucciso da un mitragliamento aereoAi??sulle secche di Kerkennah, in Tunisia6, ed il colonnello pilota Riccardo Helmuth Seidl, napoletanoAi??malgrado il nome, caduto in Mediterraneo alla testa del suo 36Ai?? Stormo Aerosiluranti. Dal suoAi??esempio il 36Ai?? che in quell’occasione guadagnA? anche la Medaglia d’Oro per la propria bandiera, haAi??preso il motto “Con l’ala tesa a gloria o morte”.
Molti anni sono passati ed oggi che l’Italia A? impegnata in missioni all’estero, come nell’exAi??Jugoslavia, con propri contingenti, gran parte degli uomini che ne costituiscono il nerbo, parlaAi??dialetti meridionali e, in particolare, campani.
La Storia, come si vede, continua…
Lettura tenuta al :
XXVI INCONTRO TRADIZIONALISTA DI CIVITELLA DEL TRONTO il 23-24 MARZO 1996 (edizione riveduta)
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6 E’il caso di ricordare anche un altro valoroso sommergibilista atlantico, il pugliese capitano di
vascello Enzo Grossi, giAi?? comandante del sommergibile “Barbarigo”, decorato della Medaglia
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3 Comments
eravamo popoli civili, siamo diventati un popolo incivile e rozzo, succube del più forte, anzi del più scaltro che con l’inganno e la crudeltà ci ha fatto diventare il suo zerbino, o il piedistallo di pietra su cui ha fatto poggiare il culto dei suoi falsi idoli.
Chi muore in guerra è sempre un eroe, da qualunque parte sia! di qua o di là, che l’abbia condivisa o l’abbia subita, la vita e la morte in balia dei potenti che decidono senza averne il diritto.
caterina ossi
Caro Fiore, hai perfettamente ragione! Un popolo si distrugge denigrando la sua identità e la sua lingua nonchè la sua cultura e le sue tradizioni. Ci sono riusciti? Non del tutto se esistono persone come te e l’amico Longo che combattono ancora con le armi della storia e dell’economia e con tutto l’amore per la nostra martoriata ma bellissima terra! Gabriele
Sì, eravamo un popolo al quale è sempre mancata coesione ed unicità di intenti. In compenso eravamo un popolo che produceva e lo sapeva fare, anche con enormi sacrifici. Purtroppo dotati di marcato individualismo, è sempre mancato elemento che sapesse guidare e smussare certi angoli o devianze. Se si aggiunge la scaltrezza dell’uomo del nord, o savoiardo che sia, si capisce perchè siamo stati ridotti alle attuali condizioni. Siamo fortissimi nel pensiero ma non supportati dalle azioni. E’ il nostro retaggio.