Il radicamento e la diffusione dell’uso delle carni povere in Molise, non diversamente da altre realtAi?? appenniniche, fanno tutt’uno con le abitudini alimentari di una societAi?? insediata su un territorio difficile e dipendente per secoli da un’agricoltura di sussistenza. Il consumo delle carni – oramai A? noto – fino alla metAi?? del ‘900 A? stato limitatissimo; il suo lento progredire nel tempo anzi, A? stato uno degli indici piA? significativi dell’evoluzione delle condizioni di vita e della cultura del cibo degli abitanti del Sannio. Se si escludono le carni importanti del maiale e il suo preziosissimo grasso, le carni destinate al consumo popolare erano dunque quelle possibili, vale Ai??dire quelle residuali, non destinate alla vendita finalizzata ad integrare il reddito della famiglia contadina. La stessa alimentazione dei ceti possidenti peraltro, sotto il profilo proteico si fondava episodicamente su carni di bovini, quasi esclusivamente dedicati al lavoro e in maniera marginale alla riproduzione e alla produzione di latte, e normalmente si reggeva su carne ovina e di maiale. Se ne ha conferma documentaria sia dai libri di casa dei baroni Japoce di Campobasso, risalenti alla seconda metAi?? del ‘700, sia dall’ordine settimanale di cucina dei duchi D’Alessandro di Pescolanciano, datato 1887. In esso la carne cotta in pentola, alla brace e allo spiedo, compariva una volta sola alla settimana, mentre due volte le salsicce e le sopressate dei coloni, e la domenica era celebrata con carne di pecora o di cinghiale cacciato nei propri tenimenti. E tuttavia, sullo sfondo grigio di una cucina di sopravvivenza emergono peculiaritAi?? e richiami che possono essere considerati un originale contributo che la tradizione gastronomica molisana puA? dare alla composizione di una mappa nazionale delle carni da non dimenticare. In questa prospettiva ad esempio, si collocano gli importanti reperti di storia dell’alimentazione provenienti dal sito paleontologico “La Pineta” di Isernia, uno dei piA? antichi d’Europa, risalenti ad oltre seicentomila anni fa. Gli abitanti di quel territorio, che aveva caratteristiche di savana, vivevano delle carni residuate di grossi animali (bisonti, rinoceronti, ippopotami, elefanti, orsi) uccisi da carnivori, oltre che di cervi e daini. La peculiaritAi?? delle ossa ritrovate, esposte oggi nel museo costruito nella localitAi?? di scavo, A? che le teste sono fratturate allo scopo di trarne le cervella di cui alimentarsi. L’abitudine popolare di cucinare la testina dell’agnello sotto la coppa di ferro ricoperta di braci e carboni e le cervella di maiale sfritte in padella ha dunque un vertiginoso antecedente. Ma al di lAi?? dell’ironia, il consumo di quelle che in epoca storica sono considerate carni secondarie e povere, includendo in esse oltre alle cervella anche i visceri, A? ancestrale e risale alle fasi primordiali della lotta per la sopravvivenza. E’ questo almeno il dato che le ricerche condotte sul territorio molisano con ineccepibile rigore scientifico, consegnano alla riflessione generale sull’argomento.
fonte: www.accademiacucinaitaliana.it