EPICO VIAGGIO GASTRONOMICO TRA LE PROVINCE DEL MERIDIONE D’ITALIA
di Gennaro Avano
Fermo 26 giugno 2018
Premessa. 83 anni dopo “Il ghiottone errante” di Paolo Monelli, abbiamo constatato l’assenza di una narrazione che raccontasse, gastronomicamente parlando, gli auspicati sviluppi di quei territori visitati nei primi decenni del secolo scorso. Se poi a questa constatazione aggiungiamo pure la ricerca vana di una narrazione legata a un tour specificamente meridionale, nostro oggetto di interesse, finiamo addirittura a 250 anni fa.
Proprio questa rilevazione ha probabilmente ispirato il nostro editore-mecenate, il quale da mesi mi spiega la genesi del suo progetto circa l’esplorazione dello stato gastronomico attuale nel nostro Sud. Quella che ci accingiamo a compiere.
Per dare però un taglio corretto a un’impresa così impegnativa occorre avere ben chiara l’origine delle cose attuali, sicché mi viene in soccorso il lavoro di ricognizione storica che ho compiuto negli anni passati. La storia infatti serve anche per stabilire come debba essere raccontato il presente, pertanto:
per intendere compiutamente il percorso regionalizzato della gastronomia sarà utile partire dai principi fissati da Piero Meldini nel saggio “L’emergere delle cucine regionali d’Italia”, il quale ci spiega:
«Perché si contraddistinguessero compiutamente, alle cucine locali occorsero oltre cent’anni. Iniziato nel secolo precedente, il processo di diversificazione occupò l’intero secolo XIX e, paradossalmente, fu accelerato e quasi favorito dall’unificazione del paese».
In realtà ciò che allo Studioso appare “paradossale” per noi non lo è tanto, almeno, non ci sembra tale, poiché siamo ormai consapevoli che per tutta le seconda metà dell’Ottocento fu una lucida volontà quella tesa a frantumare la consapevolezza di una familiarità culturale tra le regioni del Mezzogiorno.
L’obiettivo? Quello di un’estraniazione meridionale necessaria a una nuova –ma scarsamente avvertita- identità italiana:
«Solo al termine di questo processo, nel primo decennio del Novecento, agli occhi degli studiosi della cucina e delle tradizioni popolari apparirà infine nitido il quadro delle cucine regionali italiane».
E ci stupisce anche che nella lettura storica di questo clima politico culturale, in cui aveva preso consistenza la tesi –falsa alla radice- di una cucina regionale, lo Studioso protenda a leggere una pratica di buona fede: «Pellegrino Artusi, che pure ospita nel suo […]manuale alquanti piatti locali, li frammischia disinvoltamente fra loro […] Incurante di storicismo e filologia, si affida positivamente alla natura, optando[…] per una cucina ragionevolmente semplice[…] Non vedrei in questo, differentemente da Piero Camporesi, l’attuazione di un disegno di unificazione coatta[…]».
Se dunque la nostra percezione dovesse sembrare schierata, per il fatto stesso che è in atto un dibattito in tal senso orientato, la vediamo –quantomeno- riconosciuta come una posizione non astrusa.
Convinti da questa chiave di lettura siamo animati, nella cronaca dell’esplorazione che ci accingiamo a compiere, dal desiderio di sottolineare il rapporto di reciproco scambio, quindi, le somiglianze culturali e di gusto, che esistono tra le terre meridionali tutte (insulari e peninsulari), piuttosto che le differenze regionali cercate dopo il 1860.
Ci appressiamo quindi a offrire al lettore la cronaca di un viaggio che prospettiamo meraviglioso, ma non prima di aver preventivamente raccolto materiali, e studiato i territori, al fine di maturare la consapevolezza indispensabile per approcciarci alle peculiarità dei luoghi visitati.
Nel tradurre poi in cronaca l’ espressione delle pratiche gastronomiche che ci appressiamo a incontrare ci si è posta la necessità di scegliere un criterio per l’identificazione dei territori, sicché la storica suddivisione provinciale ci è sembrata il modo migliore per rappresentale.
I viaggi gastronomici però non s’intraprendono da soli, occorre dotarsi di buona compagnia, l’ editore pertanto mi ha consentito di eleggere una guida, un vate, ed ecco perché sto già usando il plurale.
Nella scelta del compagno adatto a questo lavoro, perché di lavoro si tratta, anche se vedo i sorrisetti scettici di qualche lettore, mi si è posto il problema di quale tipo di persona, tra le mie conoscenze, fosse da coinvolgere. Un compagno esperto di gastronomia…ma selettivo? Un mangione disposto a provare tutto? Uno da istruire o uno che ti istruisce?
Alla fine ho optato per uno capace di sopportarmi e arginarmi; appassionato di questa categoria, ma sufficientemente critico. Abile cioè a mantenere le giuste distanze, apprezzando ma anche ricusando ciò che sarebbe stato eccesso e ridondanza.
La scelta dunque non poteva che cadere su Fiore, un caro amico di Caserta che corrisponde precisamente a tutti questi requisiti.
Tengo a precisare però che non tutto quello che ci accingiamo ad apprendere lo proveremo.
Fiore dice, correttamente, che ci vorrebbero tre o più vite per attendere a tutta la varietà che ci si prospetta.
Il quadro che ne stiamo tutt’ora traendo, inoltre, non vuole arrogarsi alcuna pretesa di completezza. Vogliamo raccontare piuttosto ciò che è in uso, nella quotidianità e nella festa, escludendo tal volta cose troppo specifiche o di nicchia, che significano molto spesso una materia prima ormai estinta o una necessità economica e/o alimentare tramontata.
Il 12 giugno 2018 io e Fiore ci siamo dati convegno al piazzale antistante la stazione del Capoluogo di Terra di Lavoro, per intraprendere, con spirito goliardico, questo reportage sullo “stato gastronomico” del Meridione moderno.
Nell’accingerci a un viaggio che ci si prospetta delizioso, ma anche faticoso, non potevamo non partire da Terra di Lavoro, quella che un tempo era la provincia più estesa e ricca dell’intera Penisola.
Nei giorni precedenti il primo tour Fiore, durante le conversazioni telefoniche preparatorie, per farmi meglio comprendere il carattere gastronomico della sua provincia mi dice un proverbio.
“ È meglio a murì sazio ca campà djuno ” .
E quale concetto spiegherebbe meglio il pensiero del probo cittadino di “Terra”?
Epperò io mi sono attrezzato, e prima di cominciare ho letto qualcosa.
Ho appreso dell’antica Panis Coculis, Villaricca, da cui parte la più famosa tradizione panificatoria della Campania Felix; e da qui parte, pare, anche la notorietà del Tortano, riferibile all’uso pasquale delle parrocchie di farne dono ai fedeli.
Sarà questa l’origine pure del Casatiello? Quello che si riempie di ciccioli, formaggio e pepe?
Certo è che, sempre qua, trovo -storicamente- la maggiore presenza di maiale in Italia.
Ho letto su “Il maiale nero nella tradizione di Terra di Lavoro” di P. Patini e V. Orlandi che un censimento del Ministero dell’Agricoltura del 1918 riporta che su 570.000 capi diffusi nel Meridione, più di 70.000 erano quelli allevati in Terra e -dallo stesso libro- apprendo anche che questa era la specie più importante tra le razze italiane , .
Sono ormai le 9.30, Fiore arriva con la sua Renault Megane: « Oh io sto a dieta da tre giorni per fare sto giro! ».
È meglio a murì sazio ca campà djuno, dunque. Da questa rappresentazione del carattere territoriale l’idea di trovare il proverbio provinciale che, d’ora in poi, precederà ogni nostro excursus.